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Da Caravaggio per accendere la tv degli altri

di Marco Alfieri

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25 novembre 2009
La soddisfazione degli installatori per aver ripristinato il primo trasmettitore televisivo dopo il conflitto (tecnologia Abe, potenza: 5KW).

L'ultimo "cassone" intelligente è in partenza per la cittadina di Iwo. Duecentoquarantamila euro di impianto per diffondere il digitale terrestre nelle tv di migliaia di nigeriani. Dal mese prossimo, questo strano armadio elettronico sarà il trasmettitore di potenza più grande del paese. Tre tecnici stanno finendo il collaudo, prima di imballarlo, destinazione Nigeria. Ma nel grande magazzino dai soffitti chiari, in zona industriale a Caravaggio, il paese del santuario di Santa Maria del Fonte, ci sono bolle e scatoloni con destinazione mezzo mondo: codificatori per Hong Kong, parabole per l'Armenia e luoghi impronunciabili sul lago Baikal, trasmettitori per la Cina e l'Azerbaigian. La Abe di Roberto Valentin, appena 25 addetti, fa l'85% del suo fatturato (6 milioni) per lo più in paesi extra Ue e persino in zone di guerra, dove arriva e "riaccende" le trasmissioni. Una specie di mini fronte tecnologico del made in Italy ai tempi della crisi.

Dei "Piccoli del capitalismo diffuso" in questi mesi si è soprattutto raccontato il rischio che se ne perda per strada un pezzo. Il saldo delle imprese artigiane sceso per la prima volta in negativo (-12.600 unità) a gennaio-settembre 2009, un milione e mezzo di nuovi potenziali disoccupati, gli auto-convocati che imprecano contro la finanza apolide, le banche, una moratoria/debiti che sembra più che altro fumo statistico, e una politica che non taglia le tasse né accorcia i tempi di pagamento della Pa. Troppo poco, invece, dei tanti Piccoli innovativi che della crisi si fanno un baffo e sono in grado d'offrire modelli virtuosi per uscire più forti dallo tsunami.

La fotografia è ancora tutta finanziaria, schiacciata sul lato costi. Cassa integrazione in quelle aziende che dipendono molto dall'intensità degli addetti, internalizzazione del lavoro, dilatazione dei pagamenti ai fornitori. E per chi è messo peggio riduzione del ciclo vendite e produzione acquisti. Si produce solo su ordinativi e meno per il magazzino, massimizzando le code degli incassi. Tutte misure che hanno impatto sul breve, in attesa che passi la nottata, ma senza una visione industriale di medio-lungo. Nel frattempo la cassa funziona ancora da materasso. Doveva saltare il Nord-Est, ma così non è stato: è ammaccato ma sempre al suo posto. Né si vedono per ora licenziamenti di massa in quei 100 distretti che il ministro Tremonti non cambierebbe mai «con i 50 campioni industriali francesi». È come se la globalizzazione accelerasse le crisi, ma ne attutisse anche gli effetti. Così il pendant paradossale dell'emergenza di questi mesi è un certo sconfinamento auto-assolutorio del carattere nazionale, lo stellone del Belpaese che reagisce meglio di altri alla crisi globale. Una lettura che rischia di tenere calcato un pericoloso velo di Maya sulle tante fragilità nazionali, proprio adesso che per acchiappare la ripresa bisognerebbe aumentare la produttività e l'utilizzo degli impianti rimasti in ghiaccio per mesi, recuperando profitti da reinvestire in nuovi macchinari.

Gli impianti di trasmissione tv di Baghdad, in Iraq, distrutti nel 2003 durante la seconda guerra del GolfoLa storia di Roberto Valentin è di grande aiuto per questo. In trent'anni tondi, e con appena 25 dipendenti, la sua Abe (Advanced Broadcasting Electronics) è diventata tra le più apprezzate costruttrici mondiali di trasmettitori televisivi e reti di comunicazione a microonde. I clienti sono occidentali e orientali. Israele e Gaza, dove la piccola impresa bergamasca ha riacceso due volte gli impianti della tv di Arafat, distrutti dai missili di Tsahal. La tv di stato cubana alla vigilia dello storico viaggio di Papa Wojtyla (1998), tanto che Valentin tiene in bella vista sulla scrivania la lettera di encomio dell'ambasciata di Castro a Roma. E poi le tv di Bosnia e Kosovo dopo la mattanza balcanica e quella irachena dopo la caduta di Saddam, a Baghdad e Bassora. «L'impianto di trasmissione lo abbiamo ripristinato su commessa di un contractor del Pentagono», spiega orgoglioso l'imprenditore.

Certo non fa solo quello, ma Abe arriva sui teatri post-bellici appena dopo i marines, i cingolati, i genieri. I suoi tecnici verificano, sostituiscono e ripristinano. È una specie di peace keeping mediatico, il loro, che vale l'8% dell'intero fatturato. «La nostra tecnologia è apprezzata. Forniamo hardware e consulenza per risolvere i problemi», prosegue Valentin. Per lui è normale fare impresa così. Rompendo il tabù di chi pensa che i Piccoli non hanno massa critica per fare innovazione. «Faccio le stesse cose da trent'anni, solo più evolute, perfezionando costantemente i modelli», chiosa quasi stupito dello stupore.

Valentin è appassionato di elettronica fin da bambino. A 9 anni ha costruito la sua prima radio, a 13 il primo rice-trasmettitore. Poi al 4° anno di Politecnico ha smesso di studiare per fondare Abe. Correva l'anno 1979 e lui, originario della Val Badia, ne aveva 23. «Decisi di fermarmi a Caravaggio perché un mio compagno di università con cui fondammo e attrezzammo la prima radio privata della zona, radio Liberty, era di Treviglio», ricorda non senza emozione, sfiorandosi la spilletta dei Lions sul bavero della giacca. «Poi qui conobbi la mia futura moglie. Insomma, i casi della vita...».

  CONTINUA ...»

25 novembre 2009
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